Ritratto di una formica: una foto e cinque domande a Marco Vallefuoco

Nel tornare, parzialmente, all’esperienza della fotografia e ai territori più vicini a noi, oggi presentiamo un giovane fotografo napoletano: Marco Vallefuoco. Studente dell’Accademia delle belle arti a Napoli, lo presentiamo attraverso un’intervista e una sua foto. 

N.B: Per comodità abbiamo scelto di utilizzare A.R. e M.V., al posto di riportare, o ogni domanda e risposta, i nostri nomi per esteso.


A.R: Per iniziare, mi sembra doveroso chiederti da dove nasce la tua sensibilità per la fotografia.

M.V: Non saprei rispondere esattamente, indicandoti magari un punto sulla linea temporale in cui sono diventato “fotografo”. Forse è sempre stata dentro di me, semplicemente celata dietro altre passioni: il cinema, la musica, la scrittura; o, banalmente, dal fatto che da piccolo non mi sentissi a mio agio quando toccava farmi scattare fotografie, e per ironia della sorte, ho finito per scattarle io. La sensibilità, penso, in modo generale, sia un aspetto che ha sempre fatto parte di me: ho costantemente avuto occhio per i dettagli, le storie, l’armonia ed il contrasto tra gli elementi. Nella fotografia, come nella scrittura, nella musica ed in tante altre cose, c’è bisogno di questi elementi. Talvolta scatto una foto, l’altra scrivo, altre ancora suono: si tratta di strade diverse, ma tutte hanno origine dalla mia sensibilità. Proprio per questo preferisco essere definito “artista” e non “fotografo”.

A.R: Quale approccio consiglieresti per la lettura delle tue foto?

M.V: Le mie foto hanno infinite chiavi di lettura, tutte diverse tra loro; ma del resto, cosa non ne ha? Non ho mai amato spiegare le mie opere, di qualsiasi genere esse siano: trovo inopportuno spiegare l’arte, proprio perché ognuno la vede a modo suo, accoglie e rifiuta determinate cose. Io stesso trovo difficoltà nel saper distinguere un genere dall’altro: quando scatto non sto lì a pensarci, non mi soffermo, è quasi un bisogno fisiologico. Se dovessi consigliare un approccio per poter decriptare la mia produzione, consiglierei di non usare nessun approccio, di non aspettarsi niente, di guardare e scoprire col cuore.

A.R: Quale artista hai preso come modello?

M.V: Non ho mai avuto un artista come modello. In quasi cinque anni che scatto fotografie con criterio, solo di recente ho studiato la storia della fotografia ed i suoi maestri. I miei modelli sono più semplicemente nati dall’ispirazione, scovata in posti, persone e situazioni differenti. Certo, ho letto, studiato ed osservato attentamente centinaia, se non migliaia, di opere, fotografiche e non; ma non hanno fatto altro che edificare l’esperienza su cui si poggia la mia ispirazione. La mia produzione fotografica è un bisogno: la fotocamera è il mezzo attraverso il quale prende forma la mia anima.

A.R: Come prendono vita gli scenari delle tua foto?

M.V: Dipende. La maggior parte delle volte non costruisco le mie foto: sono un “cacciatore” in questo senso, mi “apposto” ed osservo con occhio vigile ciò che mi accade intorno. Raccolgo da terra le storie che trovo, un esploratore armato di fotocamera. Altre volte, invece, ho bene in mente cosa voglio raccontare, tornando spesso a casa a mani vuote. Altre ancora ho bisogno di costruire, preparare i miei set, scegliere la location, il soggetto; non è sempre facile riuscire a rappresentare le mie idee oniriche, per questo, talvolta, necessito di artifici.

A.R: Le tue foto hanno una connessione tra loro o sono opere individuali?

M.V: Penso alle mie foto come a dei frammenti di vetro, facenti parte di un unico specchio senza fine: una storia in continua evoluzione, la mia storia, di quello che vedo e sento. Certo, sono separate da spazio e tempo, ma hanno tutte la stessa origine. Tutto è connesso, dal rapporto di causa-effetto all’effetto farfalla: le sensazioni che ho provato negli anni, le esperienze che ho fatto, le persone che ho conosciuto, fanno da collante tra le opere. Se oggi scatto una foto in un certo modo, è perché ieri l’ho scattata in un altro. Esiste già una connessione tra la prima e l’ultima foto che scatterò: viaggia e si ramifica attraverso ogni cosa, costantemente.


5

Un autoritratto al cospetto della Via Lattea, in una notte estiva a tremila metri sopra il livello del mare; questa, forse, è una delle foto che più mi rappresenta. Mi ricorda la capacità di meravigliarsi, di stupirsi: un bambino che alza gli occhi al cielo e sente che quello che ha davanti è più grande di lui. Uno sguardo appena oltre la siepe, infinite possibilità, sogni e speranze. Siamo formiche che vivono la propria vita nel giardino che è l’universo, direbbe Benni, formiche che combattono tra loro per la supremazia, ignorando il fatto che non contiamo nulla se non per noi stessi. Bambini che giocano a fare Dio nel salone di casa propria. Il mondo continua a girare, anche senza di noi. Viviamo da pochi secondi e ci sforziamo di comprendere cose che esistono da miliardi di anni, per giungere alla conclusione che siamo infinitamente piccoli.


di Antonietta Di Rosa

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